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Dante in "Tour".

18-07-2025 16:10 - spettacolo
È così, Giorgio Battistella ha proprio lasciato il segno.
I primi 39 versi del Purgatorio ce li ha anticipati centellinandoli uno a uno, facendocene scoprire man mano il significato più profondo. Sentirli poi tutti di seguito è stato come navigare agevolmente fra acque conosciute, come descrive bene Claudia Sebastiani nelle sue considerazioni pubblicate qui sotto.
Ma prima di congedarsi Giorgio ci ha regalato un brano particolarmente toccante dei Promessi Sposi, quello in cui il protagonista Renzo, aggirandosi fra le vie di Milano ingombre di morti per la pestilenza, si blocca alla vista di una donna che esce da casa portando in braccio la figlioletta morta per deporla sul carro che raccoglie i cadaveri del contagio. Impressionante come in poche parole, Manzoni rende il turbamento davanti a tanto dignitoso e infinito dolore, da parte del monatto, uomo pure avvezzo a caricare salme tutto il giorno. Perché anche in questa possibilità di esser migliori, presente in ogni essere umano, ritorna quel tema della speranza che Battistella ha posto al centro del suo Tour 2025.

Dei due brani riportiamo qui di seguito il testo.

Il Tour Dantesco prosegue puntando su Velletri per la sera del 18 luglio e poi Subiaco il 19. Seguiranno tappe in Abruzzo, Molise e Marche prima di riprendere il treno per tornare a Treviso.

Le foto sono di P.Leoncini, MG.Vasta, G.Nobile, M.Celestino e C.Tondi.




Dante in Tour

Per un pomeriggio immaginiamoci alunni di una scuola superiore di Treviso con un Prof di eccezione, Giorgio Battistella, che gira in lungo e in largo l'Italia in bicicletta per far conoscere la Divina Commedia con un approccio molto personale ma altamente efficace.
In occasione della tappa nettunese del suo Tour dantesco 2025 Cittainsieme ha organizzato un incontro questo pomeriggio 17 luglio al Forte Sangallo di Nettuno in cui il professore ci ha introdotti nel primo canto del Purgatorio, dopo l'Inferno proposto lo scorso anno.
Eravamo in tanti, in un silenzio assorto, ad ascoltare versi che in un primo momento possono sembrare difficili da interpretare ma tuttavia esposti con una chiarezza e intensità tali da renderli non solo comprensibili ma emozionanti.
Versi illustrati e declamati con una gestualità e al contempo pacatezza da lasciarli impressi nella mente ben oltre la fine dell'incontro.
Da “Sommo Poeta” Dante diventa così persona amica che vuole aprirci un mondo nuovo fatto di bellezza, speranza, consolazione dopo il buio dell'inferno personale che ciascuno prima o poi attraversa nella vita.
Ecco allora il "dolce color d'oriental zaffiro", un cielo notturno azzurro e sereno ad accogliere il poeta quando insieme a Virgilio emerge dal buio dell'inferno. Una serenità che anche noi possiamo cogliere in quest'anno giubilare ricordando l'invito di Papa Francesco: "non lasciatevi rubare la speranza".

[Claudia Sebastiani]


Divina Commedia, Purgatorio Canto I°, versi 1-39.

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!

Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l ‘altro polo,
là onde il Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.







La madre di Cecilia (dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni)

Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori.Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «No!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così».
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola».
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.
E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.


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