20 Aprile 2024

Paola Leoncini, Anzio, SCRITTURA

16-02-2018 23:41 - Catalogo degli Artisti
mi chiamo Paola Leoncini

abito ad Anzio

la mia email è QUI

mi propongo nel Catalogo degli Artisti di CittaInsieme per la
SCRITTURA

mi presento brevemente:
Perché ho cominciato a scrivere? Sono un´accanita lettrice sin da piccola, ma il romanzo che mi ha fatto scattare la molla della scrittura è stato "Piccole Donne" di L.M. Alcott. Mi sono subito immedesimata e identificata nel personaggio di Jo, la "piccola donna" scrittrice della famiglia March, protagonista della storia, e mi sono resa improvvisamente conto di sentire dentro di me una gran voglia di raccontare qualcosa.
Da allora scrivo, non a ritmo costante ma a periodi. Non ho ancora mandato niente in stampa ma Internet ha, in ogni caso, aperto le porte alla mia creatività su foglio digitale. In futuro, vedremo...

Questi sono i miei luoghi nel web

MEETALE (raccolta di miei racconti)
IPERSPAZI (mio blog di pensieri, articoli, recensioni, ...)
FACEBOOK (la mia pagina Facebook)
GOOGLE+ (mio spazio sul blog Google+)




Qui di seguito due miei racconti (sono anche scaricabili dai link più avanti)


DAL TRAMONTO ALL´ ALBA
Fiaba fanta-ecologica


Nota doverosa:

"Dal tramonto all´alba" è anche il titolo del famoso film horror/demenziale firmato da Robert Rodriguez, con la partecipazione di Quentin Tarantino e George Clooney, ma il motivo della mia scelta del titolo è leggibile nelle ultime righe del racconto


Convergevano tutti verso lo stesso luogo, a pochi chilometri dalla costa.

Le tre piccole imbarcazioni, portanti ognuna tre persone, fra cui il rematore, si avvicinavano lente, dolci, delicate e silenziose all´isola, facendosi faticosamente strada nella grigia e fredda nebbia che sembrava avvolgere l´intero mondo, almeno quella sera del Mese Verde (Aprile), al termine di quello che avrebbe dovuto essere un inverno, ma del quale, ormai non c´era più traccia né ricordo, essendosi le stagioni unificate in un´estate arida e spietata senza soluzione di continuità.

La vivida luce purpurea del Sole che anche quella sera, stanco dal lavoro quotidiano, si apprestava scendere nel mare, era sciolta in quella nebbia risalente dalle acque tiepide, distribuendo il rossore della sua fatica in tutto ciò che c´era rimasto intorno, ossia quasi nulla, ma non sull´acqua che a malapena sfiorava con solo un´ accennata striscia rosso più chiaro.

Il silenzio materiale nella zona era disturbato soltanto dallo sciacquio dei remi che, pigri, venivano tuffati in acqua per mandare avanti le barche, senza fretta, anch´essi passivamente partecipi all´evento che stava per verificarsi.

Le tre piccole barche giunsero sulla spiaggia dalla sabbia color amaranto come la terra brulla che s´incontrava dopo, nell´inoltrarsi sull´isola.

Avrebbero potuto celebrare il rito in qualunque altro luogo, poiché ovunque il panorama era lo stesso: aridità e desolazione, ma il Saggio li aveva informati che sull´isola erano stati avvistati segni di vita.
Lasciate le barche a riva, le nove persone, fra le quali il Saggio stesso, s´incamminarono lungo un sentiero formatosi naturalmente sul suolo secco, fra massi di roccia nera che, uno di seguito all´altro, parevano aver disegnato il profilo di un umano steso al suolo, nero contro il cielo amaranto del Sole che scendeva nel mare.
Le scure dita scheletriche di arbusti spinosi, smagriti dalla siccità, sembravano uscire dalla terra riarsa nel gesto pietoso di richiesta d´acqua e luce.

Raggiunta una radura, il Saggio ordinò ai suoi compagni: cinque donne e tre uomini, di fermarsi alzando semplicemente la mano destra in tono solenne, senza parlare. E tutti e nove si fermarono nella radura, mantenendo quel silenzio sacro, che pareva acquistare peso prendendolo dall´oscurità incalzante di un´ennesima notte sulla Terra.
Ciascuno dei nove membri del gruppo teneva in mano un ramo secco, preziosa reliquia, testimonianza di un tempo che fu, in cui il pianeta era ricoperto dalle piante che generavano quei rami. Ma di quel tempo se n´era perso il ricordo, cancellato anche dalla scomparsa di qualsiasi strumento che avesse potuto conservarne la memoria, almeno iconografica.

Il silenzio si fece ancor più consistente e accompagnò il disporsi a cerchio intorno all´oggetto del rito, con una musica remota, instillata nelle menti dei nove, e ascoltata solo da loro.

L´assenza totale di rumori e suoni, se si escludeva il lontano sciabordio delle piccole onde che s´infrangevano tranquille sulla spiaggia, contribuì a fornire una concentrazione mentale massima tale da provocare, dopo pochi minuti, l´accensione dei rami mantenuti dai nove celebranti il rito. E le fiamme che avvolsero le sommità dei rami illuminarono, nelle tenebre ormai completamente scese, i loro corpi asciutti, nascosti dalle lunghe vesti rosso scuro, e ciò per cui quegli esseri umani si erano recati fin lì, ovvero: un giovanissimo alberello, alto forse una cinquantina di centimetri, ai lati del quale, spuntavano timide esili braccine terminanti in manine che sembravano chiedere di essere accarezzate da altre mani più grandi, forti e calde.
Nove sguardi intensi e speranzosi confluirono sulla creatura nata da poco.

"Siamo qui riuniti - esordì il Saggio, con voce chiara, potente ma anche soave - per celebrare la vita che rinasce".

Otto paia di occhi puntarono sulla figura sottile ed ascetica del loro capo: un uomo di media età, longilineo, e dal volto magro, angoloso, lievemente brunito, addolcito da barba, baffi e capelli quasi candidi, che gli conferivano l´aspetto di persona dalle vaste conoscenze sul mondo e l´universo e sembravano donargli la saggezza attesa dai suoi simili. Il saggio restituì loro il suo sguardo chiaro e magnetico, profondo e indagatore, in grado di scandagliare un´anima fin negli angoli più reconditi ma anche di trasmettere fiducia e parole sempre buone.

"Lo siamo anche per festeggiarti, Saggio. - aggiunse una delle donne - la tua nascita è stato il segno della speranza".
"Non è importante. - obiettò il Saggio - L´importante è che Madre Terra ci abbia perdonati".
" E lo ha fatto, credo!" osservò uno degli uomini.
"Si, - confermò il Saggio - ma non basta. Dovremo pregarla a lungo tempo affinché Ella ci renda indietro ciò che noi le abbiamo tolto".

Dopo aver ascoltato la solenne introduzione dell´ uomo, i nove si presero per mano ed avviarono un canto a sola voce, unico suono che per tutta quella notte coprì, ma non completamente, lo sciacquio del mare. Ed il piccolo albero parve acquisire altri centimetri e grammi da quelle note mantriche, che parevano avere la forza di vero amore.

Da decenni, o forse secoli, il tempo non veniva più misurato, tuttavia, secondo i calcoli che il Saggio teneva, quella doveva essere il primo Mese della primavera per via dei colori che la Natura superstite assumeva in quel periodo, anno 2500 dopo .... dopo niente! Anche Cristo se n´era andato, e dopo di lui, nessun altro Cristo, o chi per lui, si era fatto ....avanti! Ma malgrado Madre Terra e la sua natura fossero state scorticate a morte da chi avrebbe dovuto invece curarle per beneficiare dei loro doni, in qualche modo, misteriosamente e miracolosamente, esse avevano deciso che valeva la pena riprovare a risorgere e a dare all´Uomo una seconda chance, augurandosi che, nel frattempo Egli avesse capito.

Nel mentre, aspettando che nascesse un´altra eventuale entità superiore, la piccola creatura verde, spuntata dall´arido suolo da poche ore, fu l´oggetto di venerazione da parte dei mortali, dal tramonto all´alba.

/fine







IL LAVORO RENDE LIBERI


Ivan non avrebbe mai creduto a ciò che stava vedendo.
Gli erano giunte voci di quel che stava accadendo in Europa Occidentale, ma in quel momento la realtà era più incredibile di qualunque racconto fantastico orrorifico che si potesse inventare.
E il paesaggio davanti a lui era tutto in bianco e nero: il grosso cancello in ferro nero, con sopra la scritta, incisa anch´essa in nero su un arco di legno,"ARBEIT MACHT FREI", il "lavoro rende liberi" come gli tradusse un suo compagno che parlava qualche parola in tedesco, era infisso sul terreno coperto dal bianco della neve.
Dal cancello, a destra e a sinistra, si srotolavano le reti elettrificate che inibivano qualunque intenzione di fuggire da quel luogo, nere contro il bianco della neve, lievemente più chiare contro il grigio scuro, quasi nero, delle baracche.
Il lavoro rende liberi? A Ivan non pareva proprio. La frase appariva in tutta la sua atroce ironia, il suo feroce sarcasmo. Il lavoro rende liberi da cosa?
Davanti ai suoi occhi, oltre quel grande cancello, fantasmi di uomini dentro ad uniformi sformate a righe bianche e nere, dai volti cadaverici, fissavano lui e i suoi compagni che erano lì per salvarli, con quei loro grandi occhi scuri che si confondevano dentro orbite grigio ferro.
Dopo i primi momenti di autentico sbigottimento ed orrore, Ivan e i suoi compagni di reparto si avviarono verso il cancello, lo abbatterono a fucilate, colpi di pistole e con tutte le armi in loro dotazione, dopodiché entrarono e molti di loro si trovarono quelle larve umane fra le braccia, sfinite dagli stenti sofferti nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, nel territorio nemico dell´Occidente.
Anche Ivan dovette essere veloce a fermare uno di quei poveri esseri prima che cadesse a terra per la fame e la fatica patite da chissà quanto tempo.
"Grazie" riuscì a sussurrare l´uomo prima di perdere i sensi, in una lingua che Ivan capì.
"Cos´ ha detto?" gli chiese Alexeji, un commilitone.
"Grazie, in ebraico" rispose Ivan.
"Sai l´ebraico?" domandò Alexeji.
"Qualche parola" rispose Ivan.
Prima di occuparsi ognuno di quei derelitti, Ivan e i suoi compagni di reparto si scambiarono mute occhiate ansiose e sgomente, poi, il loro comandante diede ordine di entrare tutti nel campo e salvare più vite possibile.
Ivan fu felice ed orgoglioso di eseguire quell´ordine e quasi si sorprese ad accarezzare l´uomo fra le sue braccia, mormorandogli parole di incoraggiamento e fiducia.
"Coraggio, amico mio. L´incubo è finito" gli disse a voce più alta. Ma non fu sicuro che il poveretto lo avesse sentito e capito. Glielo disse in russo, ma quell´infelice conosceva il russo? Forse no, tuttavia il suo sguardo nero come i suoi occhi che si perdevano nell´oscurità di pozzi senza apparente fondo della sofferenza, e l´abisso di paura e disperazione in cui sembrava affogare in quel momento, lo aiutarono a comprendere che lo stava in ogni caso ringraziando per il gesto semplice, limitato, però importante, che stava compiendo: salvargli la vita, riportarlo alla vita, benché in extremis.


Berlino, 9 novembre 1989
Violente picconate, piene di entusiasmo, demolirono il Muro che divideva l´Europa in due blocchi geografici e politici: al di qua, l´opulento Occidente, al di là, il "felice" Oriente, secondo chi lo aveva governato fino al giorno prima.


Siberia, 27 gennaio 1995, zona del Sevvostlag (zona nordorientale), nei pressi del fiume Kolyma

Il candore pressoché assoluto del paesaggio era spezzato in alto, in fondo, sulla linea dell´orizzonte, dal grigio-rosa del cielo promettente altra neve, e in basso, in mezzo a quella distesa bianca, dalle macchie geometriche nere dei resti delle baracche all´interno del gulag che, nei lontani anni ´50, aveva ospitato centinaia di russi, ucraini, bielorussi, polacchi e altri sfortunati, finiti in quell´inferno bianco solo perché ebrei., di altre razze o religioni, oppure in mero disaccordo col governo centrale.
Svetlana osservava quelle chiazze brune in religioso silenzio, riflettendo su quanto era accaduto prima che nascesse, su ciò che le era stato narrato da fonti attendibili, e su ciò che l´aveva motivata a raggiungere quei luoghi sperduti, ovvero: il suo servizio giornalistico.
Ora che poteva, doveva raccontare.
In quel gulag era entrato anche suo padre Ivan perché ebreo, e lì era morto di fame, di stenti e di fatica, dopo intere giornate trascorse al gelo a costruire una ferrovia.
Il suo nome,Svetlana, era il nome della moglie di Giuseppe Stalin che aveva governato la Russia, negli anni successivi alla guerra. La madre di Svetlana era una fervente comunista, suo padre, Ivan, no, e sua madre lo aveva denunciato per questo motivo e per la sua religione.
Svetlana aveva saputo da poco tempo che suo padre aveva partecipato alla liberazione dei pochi fortunati, sopravvissuti al genocidio della sua razza, perpetrato cinquant´anni prima da Adolf Hitler ed i suoi folli seguaci, perché prima nessun esercito straniero si era spinto fino a quelle terre desolate della Siberia per sfondare i cancelli di quei campi da incubo e liberare chi ci era entrato per pura questione razziale, religiosa, o di divergenze politiche.

Nessuno aveva mai saputo, sia in Oriente che in Occidente, che nel mare siberiano di neve erano morti molti di più dei sei milioni di ebrei, ma anche di altri gruppi etnici, uccisi nei lager istituiti da Hitler, in quanto Stalin, uno degli organizzatori della liberazione dell´ Europa Occidentale dal giogo Hitleriano, assieme a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, gli stati formanti l´asse degli Alleati, si era poi ispirato proprio ai metodi del Führer nell´allestire l´operazione "purga" atta a sopprimere chi si era opposto al regime qualunque fosse il motivo.
Più avanti nel tempo, grazie alla Glasnost di Gorbacev, Svetlana aveva cominciato ad apprendere qualche notizia e decise di andare in fondo per raccontare anche quella verità.
Quinto comandamento: non uccidere.
Vale per tutti.
Senza distinzioni.
Ma il comandamento non è mai stato seguito alla lettera.

Svetlana rimase in silenziosa concentrazione, circondata dall´altrettanto urlante silenzio del cimitero, allestito all´interno del gulag, e costituito da molte fosse comuni, contraddistinte da una croce formata da due rudimentali rami di betulla incrociati e tenuti fermi da una corda, irrigidita dal gelo, indicante la collocazione dei corpi probabilmente accatastati l´uno sull´altro come ultimo atto di sfregio perpetrato dagli ideatori di simile progetto criminale. E nel lucore algido della neve, perlacee ed eteree contro il grigio antracite delle baracche, le sembrò di vedere forme ondeggianti dolcemente ad una brezza che si era alzata d´improvviso e apposita per muovere quelle figure evanescenti dalle cui bocche sottili, uscivano parole mute ma udibili in grida silenti solo da chi voleva udirle. Lei le udì urlare: "Parla! Racconta".
Faceva freddo e Svetlana lo sentì ancor di più. Si strinse nel piumino rosso scuro, unica macchia di colore in quell´oceano bianco e nero. Si fece il segno della croce e lasciò il luogo, pronta spiritualmente, psicologicamente e moralmente a raccontare.

/fine
















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