Laura Quinzi (Aidarossa red), Nettuno, SCRITTURA

30-06-2018 00:50 -

mi chiamo Laura Quinzi (Aidarossa red)
abito a Nettuno

la mia email è QUI

mi propongo nel Catalogo degli Artisti di CittaInsieme per la:
POESIA e NARRATIVA

mi presento brevemente:
Vivo a Nettuno, sono operatrice sociosanitaria. Amo il teatro e la fotografia. Autodidatta, disegno dal vivo; mi piace sperimentare e creare con laboratori nell´uso di vari materiali.
Faccio poesia e scrivo racconti brevi surreali.
Portavoce del "MIP" (Movimento Poetico Itinerante) e di "Saffo e le altre", un movimento poetico che dà voce alle "Poete storiche non storicizzate".

Qui accanto alcune mie poesie e un racconto






Di segno

Masticavo birra fiele fiori di miele e mele
col cielo fasciato sui polsi tutto di me era scalzo
le mani in bocca il cuore la testa non solo i piedi
quante arie di risate e canzoni messe male
accolta nel segno della rossa follia
allacciavo il lutto del mondo alla fibbia del vestito
consegnando mozziconi spuntati al vento d’ incenso.

Fanciulla vecchia e adulta bambina con la paura di rendere
la bianca pelle agli infami delitti ballavo e brindavo alla luna
dormendo sul ciglio degli occhi sconvolti di bellezza
qua la notte proteggeva dal buio acquisito.

Aprivo porte chiuse senza partire e chiudevo porte aperte
per indispettire il destino ma ero io il destinatario
fontane m’intrecciavano i capelli contando compleanni d’acqua
ora del segno di mare sono aliena scultura insabbiata a riva






La notte si accartoccia contro il cuore

e cesseranno i massacri sulla terra
del mio giardino in disuso
stanco corpo che mi porto appresso
ammalato d’amore e di seta

quando il lupo lascerà libero l’agnello di tornare a casa?

Recuperare il sé mentre fuori e tutto intorno
piove acqua e cenere umana
si guarda al samaritano piuttosto che
lui o lei da soccorrere

più facile vegliare il morto che il vivo

il morto dentro e fuori assorbe simpatia
il vivo crea solo fastidiose incombenze
così preferisci non amarti di amore infinito
ma solamente umano.



Luna

che ti vedo pallore e cielo

ondeggiare sotto gli occhi tu accesa io spenta
mi accendo mi spengo quando non ti vedo
sale il timore del tempo andante
così il presente già non mi appartiene

non lo posso avere mentre sogno ancora una vita
e non riesco a trovarla
né lo vado a cercare così come
il mio passo stanco si stacca e si alza
solo un momento per pensarti
per credere che toccare le tue mani
possa essere la mia salvezza

il cuore rotto non si può aggiustare ma si può piangere.

Il pianto dirotto diventa il mio letto, fiume che
travolge l’alta marea del mio sognare
incomprensibile a chi certo non può più ferirmi
l’acqua mi scorre il passo che aspetta
le vorrei stare dentro ma oramai uscita a spasso con la luna
posso prendermi la libertà di morire alla vita
o vivere alla morte



Muoio ogni sera

e ogni mattina ancora torno
tra campane che non hanno mai suonato
sarà che questa musica si è presa tutto
per quanto triste possa essere
resterò un triangolo rosso
allacciato agli angoli del cielo
prenderò un giorno di riposo
che gli occhi
non hanno ancora concesso




Il tempo finito

Mi manca il cielo stasera in questa città solitudine
ma so che è caduto nel mare

mi manca l’autunno che tinge le braccia di rosso
mentre la notte si srotola come un velo stellato

mi manca il giardino d’inverno dove camminavo con fiducia
raccogliendo i fiori più belli che sarebbero poi
diventati di vetro

oggi mi manca quella dolce poesia di me
prima della luce crudele che non ravviva
giorni morti gesti e sguardo

così mi manca il primo sogno quello coltivato tra i capelli
nell’orto della mia bellezza inconsapevole

e più di ogni altra cosa mi manca quel battito d’ali
sul filo dell’amore che ci legava.

E’ il “mi manca” della mia follia che va
viene e poi torna come note impazzite
scivolate sui tasti della mente






L’OSPITE

Da quasi due ore le porte del manicomio criminale si erano chiuse per sempre alle spalle di Albert De Vito. “Ho pagato il mio debito con la giustizia e con me stesso, finalmente posso andarmene da questo posto maledetto e cominciare a pensare a una nuova vita. Ripeteva a se stesso, quasi a convincersi che adesso poteva finalmente dimenticare quella brutta storia. Andò a prendere le poche cose che possedeva e partì per il Messico. Italo-Americano di nascita, aveva trascorso trent’anni in carcere a scontare una condanna per omicidio premeditato. Non era un assassino qualunque e aveva fatto le cose perbene. Aveva ucciso sua moglie Nora di vent’anni più giovane e l’aveva fatto in un modo orribile. Il vero motivo non si seppe mai. Alle tre di un gelido e piovoso pomeriggio, la polizia trovò il corpo straziato della povera donna. In preda alla follia l’aveva ridotto in tanti piccoli pezzi, disseminati qua e là sotto il giardino della scuola dove lei insegnava musica. Un cane, annusando l’odore orripilante aveva scavato e trovato la delicata mano femminile. Era la sinistra. Naturalmente il marito era l’indiziato numero uno. E rimase l’unico. Lo interrogarono tutta la notte e resistette alle pressioni delle guardie persino tutto il giorno dopo. Alla fine del secondo giorno di estenuanti interrogatori, confessò il terribile delitto. Non oppose più resistenza, liberandosi dell’atroce peso. Con l’aiuto di un avvocato senza scrupoli, lo giudicarono incapace d’intendere e di volere. In tutti quegli anni aveva lavorato sodo, si era fatto molti amici tra i detenuti, che lo rispettavano per non aver mai negato la sua colpa. Con l’aiuto delle guardie carcerarie che apprezzavano la sua riservatezza, ottenne un posto nella biblioteca, dove si fece benvolere per il buon carattere e la disponibilità a fare i lavori più umili, ma anche per l’interesse che mostrava nell’apprezzare la lettura di un buon libro. Mise da parte ogni soldo con l’intento di realizzare un suo vecchio sogno, andare a vivere in Messico. Comprò una casa bassa e ampia tinta a calce bianca e mezza diroccata. Il suo unico pensiero adesso era di starsene lontano dal resto del mondo. L’ampio paesaggio di montagne rosse e l’infinito deserto, si stendeva pallido in lontananza come il cielo stesso. Molti uccelli volavano attorno, tagliando solchi nell’aria disegnavano curiose linee, le loro ali sembravano macchiare il creato di pittura. La casa gli era costata poche centinaia di jugeri, proprio nel cuore selvaggio delle montagne rocciose. Aveva già sistemato tutto, i pochi abiti erano sparsi sul grande letto, ma non ci pensava proprio a metterli nello sgabuzzino buio e stretto. “Ci penserò domani” si disse. Con la mente già correva alla sua grande passione, attività preferita anche in carcere. Prese una tela pennelli e colore e si mise subito all’opera. Cominciò a dipingere l’aria gialla e priva di vegetazione. Dopo un tempo indefinito fece una pausa e uscì fuori per respirare l’aria fresca della sera. Qualcosa però attirò la sua attenzione, proprio al centro del patio era spuntato uno strano germoglio. Spinoso e simile a un cactus di colore verde acido, con delle strane escrescenze che facevano pensare a tante minuscole bocche aperte come in attesa. “Sarà una pianta carnivora, strano però, non c’è ombra di verde qua intorno, e l’unico colore presente perso nella desolazione è l’ombra scura delle montagne. Stamattina se non sbaglio c’erano solo sassi e sabbia.”
Tornò a casa stanco morto per la giornata faticosa dal viaggio e pesante per l’afa, ebbe voglia di andare a dormire. Al mattino Ramon gli portò latte di capra, frutti esotici e pesce essiccato che se ne poteva sentire l’odore acre lontano un miglio. Albert decise che era ora di tornare al lavoro e ricominciò a dipingere. Il sole era al tramonto, erano passate forse alcune ore, gli occhi arrossati ormai stanchi si rifiutavano di rimanere ancora aperti. Lo sguardo perso lontano. Fuori dalla finestra qualcosa attirò la sua attenzione, nel patio una nuova pianta era spuntata rossa sanguigna, con accanto la carcassa di un piccolo roditore. Gelò dalla paura che gli fece uscire il cuore dal petto, improvvisamente si accasciò sotto il portico e rinvenne dopo un tempo indefinito. Si guardò intorno spaesato, come se fosse un altro e notò che la pianta e l’animale erano scomparsi nel nulla. “Cristo, la solitudine mi gioca brutti scherzi” pensò. Anche la tela su cui aveva iniziato a disegnare era completamente immacolata, come se il pennello non l’avesse mai neanche sfiorata. Era sicuramente un incubo dal quale sperava di svegliarsi al più presto. Si trascinò a fatica verso il letto e esausto, con lo sguardo perduto in luoghi lontani e sconosciuti, si addormentò avvolto in una vecchia e polverosa coperta dall’odore sgradevole della canfora, sprofondando in un sonno comatoso. Al risveglio il suo corpo era come di piombo, i pensieri viaggiavano lenti come il ritmo della goccia che scendeva regolare dal rubinetto della cucina, musica per chi è solo, pensieri assordanti e disordinati, come se il caos fosse passato nella sua mente per lasciarlo nella più lucida follia. Vittima dei suoi incubi, in una specie di delirio consapevole tornò a dipingere. Il pennello sembrava trovare da solo la strada sulla candida tela. I segni scuri e decisi, parevano ora scudisciate che incidevano il lenzuolo bianco, incidendo solchi profondi come rughe di cent’anni, anzi, millenarie. Di nuovo fissò il patio. All’ombra della pianta carnivora tante ossa bianche attaccate al buio della notte, che facevano da fodera ai contorni spettrali della luna, nera come il fondo scuro del lago. “Ma che mi va capitando? Non riesco proprio a capire cosa mi succede, maledizione.” Un’altra notte trascorsa nel tormento, e fuori ossa dappertutto. Ovunque dieci cento e mille di quelle orribili piante sconosciute. “Non posso, nessuno mi aveva preparato a sopportare questo strazio.” La voce silenziosamente repressa in gola occupava troppo spazio nella sua povera mente, arresa oramai all’orribile verità nascosta. Corse nel bagno che dava sul retro della casa, preso il rasoio lo passò veloce sui polsi. Lo fece in fretta, prima di ripensarci. Oramai capiva di cosa si trattava, sapeva bene quale era il demone che lo possedeva. C’era un solo modo per liberarsene. Il coagulo di sangue usciva lentamente, non aveva fretta. Col pensiero tornò al nuovo quadro che avrebbe voluto dipingere. Lo trovarono così al mattino, disteso sul letto come se finalmente avesse trovato un posto suo, tutto speciale dove stare. Era senza vita, nessun segno di violenza né ferite sul corpo. “Infarto” sentenziò il dottore. Al centro della stanza la tela con sopra il dolce volto di sua moglie Nora, l’unica donna che avesse mai amato. “E’stato il suo ultimo pensiero, doveva averla molto amata”. Questo dicevano di lui, e trovarono decine e decine di tele disposte in fila indiana, l’una dopo l’altra, intorno a tutta la casa, tutte raffiguranti lo stesso dolce viso.
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