18/11/2017 -Visita alla Cantina Bacco di Nettuno, piccolo grande viaggio fra Storia e Innovazione

18-11-2017 -

Con CittaInsieme alla scoperta del territorio. La visita alla Cantina Bacco di Nettuno


Coltivare la vite a piede franco, spremere l’uva solo con la forza delicata di un palloncino che si gonfia, produrre spumante col metodo charmat, chiudere le bottiglie con tappi superecologici...
Le informazioni si andavano accumulando e la visita ad una delle vigne dei 15 viticoltori che costituiscono il consorzio della Cantina sociale Bacco di Nettuno ha cominciato subito a promettere bene. L’enologo Pierpaolo andava snocciolando dettagli di un processo produttivo che non lascia nulla al caso perché tutta l’energia che la natura profonde in un grappolo d’uva va tenuta bene in pugno, passo dopo passo, se se ne vuole trarre il massimo della qualità.
Dalla semplice potatura di sfoltimento, che saggiamente riduce il numero di rami fruttiferi per indirizzarne la produzione, alle più grosse ma rare ristrutturazioni dell’assetto dei tralci che danno risultati solo nel giro di tre anni, il tempo cioè necessario alla pianta per riorganizzarsi secondo quanto la forbice dell’agricoltore le ha indicato. O appunto il poter coltivare piante “a piede franco”, cioè sulle loro radici originarie senza dover ricorrere all’innesto dei vitigni su radici di origine americana come è invece necessario da oltre due secoli in tutto questo lato dell’Atlantico. Una misura che si rese necessaria dopo la catastrofica infestazione di fillossera che, proveniente dall’America, portò a fine Settecento quasi all’estinzione le vigne di tutta Europa. Il terreno di Nettuno invece, così sabbioso da risultare povero di nutrienti, è però anche esente da ristagni d’acqua e questa per la fillossera non fu una buona notizia, le radici nostrane la scamparono.
Le spiegazioni “sul campo” avevano acceso il desiderio di capire cosa poi succede al prezioso grappolo una volta colto. Il gruppo si portava perciò nello stabilimento e lì fra giganteschi serbatoi d’acciaio Pierpaolo riprendeva la bella storia. Dunque è in questo vasto capannone che dal campo arriva il carico d’uva che viene riversato in grossi vasconi sotterranei dopo essere stato liberato dei graspi, i rametti che sorreggono gli acini e che una volta tolti vengono sminuzzati e riutilizzati come fertilizzante in vigna. La sgranatura dei grappoli è un’operazione meccanica ma eseguita con calcolata delicatezza, tanto da staccare il chicco e deformarlo appena un po’, quel tanto che lo faccia amalgamare ai suoi compagni a formare una massa semifluida tale da poter essere aspirata verso l’alto in una conduttura a serpentina, un vero e proprio circuito simile a quello di un frigo, che funge da scambiatore di calore. Sì perché in questo momento la prima preoccupazione è quella di raffreddare l’uva per rallentarne al massimo il naturale processo di fermentazione. Infatti i grappoli raccolti in pieno agosto arrivano molto caldi dai campi, fino a 38-40 gradi, e al primo contatto con l’aria inzierebbero subito a decomporsi. La massa di chicchi viene poi ancor più drasticamente raffreddata sparandole contro ghiaccio secco lungo il tragitto che la porta ai tini dove
si passa all’estrazione del succo. Lì nessun piede a schiacciare gli acini ma neppure torchi o presse: l’uva viene messa in un grande contenitore bucherellato al cui interno si va gonfiando una vescica piena d’aria; una forza moderatissima, regolata al centesimo, che fa uscire un primo succo che viene destinato alle produzioni più pregiate. Poi la pressione aumenta ed ecco venir fuori il resto del liquido che ammonta a circa tre volte più di quello estratto in precedenza.
L’imbottigliamento è il passo finale ma riserva anch’esso una sorpresa tecnologica: al posto dei tappi in sughero, troppo spesso capaci di alterare la qualità del vino, si usano turaccioli composti di cera d’api e fibra di canapa: garantiscono la sigillatura, non trasmettono sapori estranei al liquido e sono riciclabili al 100%; questi gioiellini fabbricati in Belgio costano una volta e mezzo quelli in sughero ma sono irrinunciabili se si vuole mantenere la migliore certificazione vinicola.
Pierpaolo si sofferma ora davanti a tre cilindri d’acciaio alti 4 metri per dirci che lì dentro nasce lo spumante della casa, basato su uve raccolte appena un po’ prima della maturazione e in cui l’effetto frizzante viene indotto non con introduzione di zucchero e lievito né con insufflazione di anidride carbonica ma con un terzo e decisamente più interessante metodo chiamato “charmat”: il riutilizzo cioè di parte degli acini pressati, il mosto, richissimo di zuccheri della stessa uva che nel chiuso dei contenitori svilupperà il caratteristico gas. Tutto, perfino il passaggio dal serbatoio alla bottiglia, deve avvenire tenendo il prodotto sotto pressione perché non appena questa diminuisse l’anidride carbonica che vi si è generata passerebbe immediatamente allo stato di bollicine. Cosa che deve avvenire invece solo davanti a una flute pronta a riempirsi e a tintinnare in un brindisi.
Fra domande e spiegazioni il gruppo di visitatori si è ritrovato inavvertitamente nella sala di degustazione, un bell’ambiente modernissimo, luminoso e sobrio, in cui tavolini apparecchiati ognuno per tre persone attendevano gli ospiti con calici, posatine e piatti di assaggini. Qui l’enologo si è trasformato in maitre sommelier e stappando due bottiglie di Pantastico ne ha versato il contenuto nei calici in attesa. Il bel vino bianco ha prima rivelato ai presenti la luminosità dei suoi riflessi giallo-verdini poi la sua consistenza che appariva evidente osservandone il modo con cui aderiva al vetro. E’ stata poi la volta del profumo, apprezzato una prima volta inalandone l’aroma a vino fermo e poi ripetendo la prova dopo averlo fatto roteare nel bicchiere: due gamme di odori completamente diverse fra loro. Affascinati dalla situazione, ma anche irresistibilmente attratti da quel nettare i visitatori si sono accinti al passo decisivo: assaporarne il gusto. E le parole di Pierpaolo sono diventate a quel punto la radiocronaca di quanto andava succedendo nelle bocche dei presenti: il senso di “liquido” che le componenti agre del vino producono sulla punta della lingua si affianca al senso di pastosità ingenerato invece sui lati di essa, lo stesso che produrrebbe un granello di sale. Infine il buon calore provocato dalla discesa nell’esofago ha suggellato la sorsata e la giornata stessa. Alla prossima!

CittaInsieme


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